Camminare a ritroso verso il futuro | Agnese Miralli
Foto: Hidetoshi Nagasawa e Renzogallo, 2000, Roma
“Procedere camminando a ritroso per non perdere di vista il cammino percorso. Ad ogni passo la prospettiva si allarga e nuovi segni entrano in campo”: è questo il concetto base di una ricerca artistica che diventa anche modo di pensiero, filosofia di vita, stile del fare. Come spiega Renzogallo, un cammino convenzionale in avanti impone l’inevitabile cancellazione del sentiero percorso; i momenti di vita appena trascorsi restano alle spalle, invisibili agli occhi, fragilmente custoditi nei luoghi ingannevoli della memoria. Camminare a ritroso permette di non abbandonare dal campo visivo quanto è stato fatto. Il lavoro di una vita resta ben collocato lungo la via, disponibile a confronti extratemporali, ripercorrimenti, parallelismi, comparazioni bilaterali, sorpassi ed evoluzioni; camminando in avanti si restringe il campo visivo in direzione di un traguardo, mentre procedendo a ritroso si allarga la prospettiva, si estende la visuale e il punto d’arrivo resta incognito. Uno dei cicli di lavoro di Renzogallo “Odysseus”, degli anni Ottanta, ha come tema centrale proprio il viaggio e avvalora l’importanza cardine del cammino, in quanto artefice di una storia nel suo crescere e divenire, a discapito della meta, mero segno della fine di un racconto.
Nelle esposizioni, Renzogallo tende a ripercorrere la sua intera storia artistica per raccontare il presente delle ultime realizzazioni, senza escludere accenni a quello che sarà o potrà essere. Le opere vengono scelte ed accostate insieme, al fine di mostrare come le evoluzioni che ogni lavoro porta con sé, siano in qualche modo concatenate le une alle altre, attraverso un procedimento al contempo lineare, trasversale e inverso. Tutto si incrocia e tutto ritorna; il quadro d’insieme ripercorso, permette di ricreare la logica generatrice di ogni fase. Ecco che si crea un rapporto interattivo tra l’interlocutore e l’opera d’arte. Il visitatore, percorrendo la storia messa in piedi dall’artista, è libero di costruire un suo modo di unire forme, idee e sensazioni, scegliendo di volta in volta un punto di vista del tutto personale. L’artista non impone un senso unico attraverso il quale poter interpretare l’opera, ma indica chiavi di lettura diverse che rendono lo spettatore libero di scegliere una propria strada verso l’Arte, di centrare quell’univoco bersaglio per una corretta interpretazione e giungere all’inequivocabile soluzione. A succedersi nella sua Opera sono i Cicli. Ogni ciclo rappresenta un momento particolare del viaggio dell’artista. Fondamentale è il ciclo “Bersagli” degli anni Novanta in cui il corpo, nella sua fisicità, diventa centrale nel processo di realizzazione dell’opera. È il gesto, è l’azione che fanno l’opera, come in “Mirare al bersaglio che ti sta mirando,” nella collezione del Museo Macro di Roma e, inevitabilmente, lungo tutta l’evoluzione di un lavoro, dall’ideazione alla creazione, si fissa sulla materia una soggettività fisica, oltre che mentale, che ne racconta le fasi, così come, nel corpo e nello spirito di chi ha plasmato quella stessa materia, ne restano segni indelebili. In ogni suo lavoro l’artista propone una sorta di cammino spirituale che attraversa la sua ricerca estetica, vedi “Tracce”, installazione realizzata per la Fondazione Volume di Roma nel 2000 nella doppia personale con Hidetoshi Nagasawa, in cui nulla è certo e definitivo, ma tutto è possibile ed intercambiabile. Questo concetto è particolarmente apprezzabile in uno dei suoi ultimi cicli, quello delle “Anfore”. La sacralità sprigionata da quella che è una delle primissime forme realizzate dall’uomo, si accentua attraverso l’aura originata dal chiarore di luce bianca, propria dell’opera “Diario”, un vaso di carta strappata, imprigionato in un’enorme gabbia di ferro, a conferma della sua inaccessibilità. Un reticolo metallico dà forma, invece, ad anfore nere, private ormai del loro ruolo di contenitore ed elevate al concetto di pura forma; ma forma è anche contenuto, secondo la cultura orientale, presente in tutta l’opera di Renzogallo. L’anfora rinchiusa, protetta e circondata da un alone di magia e mistero, riconduce al Vaso di pandora, simbolo del dono divino, tramutato nella Genesi in Albero del paradiso, dono presto svelato come condanna per l’umanità, che alla fine ne mangerà il frutto. Il ciclo precedente a “Odysseus” è quello delle “Porte del Paradiso”, ispirato all’opera di William Blake. Tutto il lavoro di Renzogallo è un continuo velare, svelare e rivelare, le superfici si spaziano in multiple stratificazioni di materiali diversi e contrapposti per colore, consistenza, qualità e spessore. Dopo i veli, dopo le argille, dopo le grate, dopo i fogli di rame e dopo le carte, ecco comparire una sagoma. L’ospite è stimolato ad un continuo scavare e ricercare nell’opera la forma sottostante, spesso in grata, mascherata e a stento riconoscibile, tramite una sorta di attraversamenti appena percettibili all’occhio umano. Ritorna anche nei quadri l’anfora, ora spezzata in frammenti di una verità da ricomporre. Dal Vaso nasce la scintilla che muove il desiderio di sprigionare l’espressione artistica in spazi sconfinati per aprirsi al mondo e che trova pieno appagamento negli interventi ambientali, a cui Renzogallo ha lavorato a partire dalla metà degli anni Settanta. Sono vere e proprie storie raccontate dalla materia, che si modella in sintonia con l’ambiente circostante, come l’installazione dedicata al personaggio di Antoine de Saint-Exupéry, dove tracce disseminate nel territorio del Comune di Caiazzo, permettono di ripercorrere e ricostruire la storia del Piccolo Principe. Lo stesso senso di slancio si ritrova in “345° Nord”,grande opera ambientale realizzata per la Biennale Arte-Natura, nel Parco della Maiella nella Val di Sangro; un gradino in ottone, che riporta la scritta “345° nord”, conduce ad un lungo asse di marmo di Carrara percorribile, 14 metri in sospensione nel vuoto, con al centro un solco in ottone immerso nella resina rossa, proiettato dritto verso la Maiella, al limite del quale, un cubo- seduta ad un posto solo nello stesso marmo, invita alla meditazione e al silenzio e allo stesso tempo restituisce la liberatoria sensazione del volo. Al di sotto, è collocata una vasca, ilo cui bordo è in granito nero, contenente grandi ciottoli di fiume dipinti in lacca rossa. L’ esterno è dipinto di verde scuro come la natura circostante. L’opera entra, così, in sintonia con l’ ambiente, senza violentare l’impatto visivo dell’insieme. Si adatta al paesaggio, così come la conformità della zona si reinventa in sintonia con l’opera; anche la collina a tal fine è stata modellata e addolcita, in modo che l’Opera non abbia ostacoli o distrazioni visive nell’area sottostante. Opera, natura e uomo sono qui una cosa sola. Lo stesso fascino si prospetta in un progetto preparato per il Campus universitario della Tuscia, dove l’artista ripristina il legame tra l’opera, l’uomo e l’ambiente, utilizzando per la sua installazione pietre come il travertino e il peperino e metalli come il ferro. Qui, al contrario, il tema cruciale è “l’incontro”; quattro pedane, più una di accesso, attraversano il campus, si incrociano senza trovare ostacoli e si riuniscono tutte in un “meeting point”, dove gli studenti possono confrontarsi lungo il cammino percorso e in un futuro da attraversare. L’impiego di materiali eterogenei è una costante nel lavoro di Renzogallo; elementi di diversa entità e natura vengono affiancati e contrapposti non solo per creare ideali sinergie, ma sono anch’essi simbolo, figurazione di un concetto. Più che una rappresentazione, quella di Renzogallo è una competizione con gli elementi della realtà; sfida le leggi fisiche della natura per far emergere la paradossalità di tutto ciò che è contingente; studia e sperimenta la materia per spingerla all’estremo, trarne ogni sua più intima potenzialità plastica per poi rinnegarla. Nell’installazione “Mare” del 1990 all’Epikentro Art Center di Patrasso e poi ad Atene un’enorme lastra di vetro, incastonata in griglia di ferro, è tenuta in sospensione da sottilissimi fili di acciaio che scendono dal soffitto. L’ombra proiettata produce un magico effetto di piccole onde marine fluttuanti in tutta la stanza e un lieve effetto di galleggiamento di materiali estremamente pesanti spiazza lo spettatore che non può più riconoscere, a primo impatto, le caratteristiche proprie degli elementi impiegati; il solido si tramuta in liquido e il greve diventa leggero; in un certo senso, nell’opera di Renzogallo è proprio la materia che viene decontestualizzata, posta a rendere situazioni ed effetti che non le sono propri, anzi del tutto opposti.