Una quotidiana tensione sospesa | Aldo Iori

Nel lavoro artistico di Renzogallo degli ultimi anni si nota un sempre più crescente interesse alle caratteristiche spaziotemporali dell’opera, al richiamo a forme di vasto e antico respiro e al superamento della dimensione materica a favore di quella metafisica. Questo, già indubbiamente individuabile in tutta la sua opera fin dai primissimi anni ottanta, è dovuto a diversi fattori, intimamente interconnessi, frutto di nuove riflessioni e di particolari esperienze vissute.

In primo luogo la propensione per la dimensione speculativa del lavoro ha condotto Renzogallo a percorrere vie e approfondimenti nel campo delle discipline filosofiche e meditative mediante la letteratura, la poesia o esperienze dirette di persone e luoghi. Il lavoro risulta arricchito di echi di lontane culture che si combinano con le già presenti e forti radici mediterranee. Le opere di Renzogallo hanno sempre richiesto una intensa partecipazione dell’osservatore e oggi lo invitano ad affinare lo sguardo su di esse rivelando di volta in volta differenti suggestioni che richiamano il profondo e l’arcaico e si intessono con idealità di matrice classica.

La matura consapevolezza dell’artista e la sua consolidata maestria nel dominio della composizione e dei materiali forniscono risposta alla sempre inderogabile e intima necessità di dare forma, con materie lavorate, manipolate o assunte direttamente dal reale, a qualcosa sempre sul confine tra ciò che è e ciò che, pur non percepibile dall’occhio, si dischiude alla mente dell’osservatore.

Nelle opere degli anni più lontani il valore simbolico e la sospensione spaziale delle forme, la coniugazione dei materiali e il predominio di specifiche cromie e rapporti compositivi mostravano già la presenza di una tensione verso la dimensione immateriale che l’immanenza della realtà o gli schemi estetici e ideologici, che l’arte allora necessitava, velavano e rendevano più nascosta. Oggi la tendenza a privilegiare la dimensione speculativa sopra citata, la precisione del gesto, l’accuratezza nella scelta e nella lavorazione dei materiali, il processo elaborativo reso ancor più armonico si riflettono in una maggiore serenità dell’opera nel dischiudere il momento epifanico senza alcuna facile meraviglia. Questo contrasta con la consuetudine contemporanea a porre in primo piano il clamore piuttosto che il silenzio, segnando una giusta controtendenza dell’artista che lo pone in linea e in assonanza con il solido percorso storico nel quale egli è sempre fortemente ancorato e inserito.

Un secondo fattore che si accompagna al primo è la riflessione che Renzogallo attua sulla dimensione storica delle arti plastiche e  pittoriche. Gli elementi messi in gioco, più di prima, hanno riferimenti con l’identità del comporre la forma che spazia dall’antichità alle esperienze dei maestri dell’ultimo secolo. Alcuni elementi, come il vaso e la grata, sono assunti fin dal loro primo apparire nel suo lavoro, con tutte le valenze acquisite nel corso della storia, come fattori archetipici, antropologici, come cardini del rapporto tra pieno e vuoto. Anche le opere più bidimensionali, ma dalla forte componente spaziale, sono ricche di richiami alla lezione della grande pittura, nella scelta dei cromatismi, nella stesura dei pigmenti, nella giustapposizione delle parti o semplicemente nell’evocare climi iconografici o soluzioni che forniscono vitalità ed energia alla composizione. La scelta di matrici geometriche, semplici o composte, si accompagna al superamento del momento razionale e progettuale per evocare proporzionalità auree in sintonia con le esperienze del passato come con quelle recenti di tutto il secolo scorso, da Klee a Burri, dal Razionalismo architettonico alle esperienze post minimaliste. Ulteriori elementi da sottolineare sono l’esperienza dovuta alla progettazione e alla realizzazione di opere dalla dimensione ambientale, collocate in luoghi naturali e urbani, e parallelamente l’impegno didattico a cui l’artista è stato chiamato in campo universitario; entrambi lo hanno avvicinato maggiormente alle problematiche proprie dell’architettura e alla dimensione naturale, arricchendo il lavoro di nuove cognizioni e interessi. L’opera si pone come luogo ove si stabilisce il rapporto tra pensiero e paesaggio nello scorrere del tempo in ciclici avanzamenti.

Le mostre più recenti evidenziano come Renzogallo intenda il lavoro come un continuum che muta nel procedere delle esperienze e del fare come se effettivamente la dimensione temporale non fosse più acquisibile in senso cronologico. Le opere sono collocate nello stesso spazio come risultanza di tensioni che si riflettono una nell’altra, nonostante a volte siano lontane per datazione, modalità esecutiva o linguistica; l’osservatore riconosce l’appartenenza a una medesima densità culturale, a un unicum che trova ragione in quel tempo e in quello spazio, mentre al tempo stesso, le singole opere mantengono la loro capacità di dialogo con l’osservatore e la loro valenza spaziotemporale risulta accresciuta e meglio leggibile anche per chi incontra il lavoro dell’artista per la prima volta.

Alcune opere offrono valida testimonianza di ciò sopra delineato. “Diario” è un’opera, iniziata nel 2006 e conclusa nel 2009, presentata a Roma nella personale presso la Galleria Maria Grazia Del Prete e nella successiva mostra a Viterbo. Una struttura cubica nera in ferro mostra al suo interno un elemento leggermente inclinato verso ponente: un vaso bianchissimo, antica forma archetipica e originaria propria della cultura visiva delle civiltà sia occidentali che orientali che richiama la liquidità, il dono, il rispecchiamento, la simmetria, l’urna e in genere il corpo e il luogo  dell’anima. Esso è frutto di una semplice ma determinata gestualità quotidiana e composto dal circolare deposito orizzontale, uno sull’altro fino a completarne la forma, di innumerevoli piccoli frammenti strappati di preziosa carta. Lo strappo è normalmente inteso come gesto di annullamento dell’integrità dell’uno, in questo caso il foglio, rinuncia, distruzione e scarto di un qualcosa non giunto a compimento, degno di memoria. Renzogallo riscatta il gesto che diviene precisa volontà costruttiva ed esecutiva. Il foglio, luogo canonico del deposito dell’immagine, rimane intonso ma violentemente utilizzato come materiale. Il paziente accumulo rivela la dimensione temporale nella dilatazione della forma; la titolazione sottolinea l’aspetto intimo, meditativo, come se fosse frutto di un quotidiano esercizio zen, o richiamo al sacro quotidiano spezzare il corpo del pane che ci nutre. Le superfici esterne e interne, nel vaso d’uso normalmente tese poiché frutto della circolarità del tornio e dall’apposizione delle mani sull’argilla in movimento, qui si presentano intangibili, sia perché fragilissime, sia perché ipoteticamente taglienti. La frammentazione diviene elemento determinante nella ricomposizione secondo una norma esecutiva e formale; tale è anche in altre opere nelle quali la forma del vaso è ricomposta con segmenti fragmentati o linee sinuose che sono solo diaframma fragile tra l’interno e l’esterno.

Nell’assolutezza silente della dualità luce e ombra, nero e bianco di “Diario” pare di udire il suono degli strappi della carta che scandisce il tempo della visione come un ipotetico metronomo infinito, circolare nella sua ripetitività. Il bianco si accende all’interno della struttura di quattro reti industriali quadrate, idealmente inscrivibili nelle loro dimensioni e proporzionalità alla tradizione dell’uomo vitruviano, lasciate grezze a contrastare la delicata presenza che racchiudono. Lo spazio cubico perimetrale dalle grate è traversabile solo dallo sguardo e questo dona all’oggetto in esso contenuto forti valenze metafisiche, allontanandolo quasi temporalmente dall’osservatore al quale è imposta una distanza di rispetto e di contemplazione. Il recinto che contiene sembra non avere affatto una volontà protettiva del delicato elemento centrale, anzi, il suo richiamo alla forma della gabbia determina una lettura inversa, come un rovesciamento prospettico. Forse è l’osservatore che, come Semèle, deve essere protetto dalla potenza della bellezza e dalla sua terribile affermazione di libertà. La consapevolezza della distanza fornisce misura e rapporto nuovo tra lo sguardo e l’opera.

Un altro grande lavoro “Senza Titolo” del 2004-2005 campeggia nella sala d’ingresso di Palazzo Chigi. Esso presenta una struttura in ferro ortogonale con grate che ingloba al suo interno una forma semicircolare, anche qui un vaso, differente da “Diario”: luminosa e folgorante nella sua apparizione la prima, materica e dinamica questa. L’opera si presenta nel suo insieme come un grande pannello a muro nel quale le grate, di due differenti modularità sono poste a distanza dal piano di fondo. In posizione centrale sospeso all’interno del quadrato della grata a maglie più larghe la forma del vaso, definita dalla scomposizione dei piani della sua sezione con una rotazione di mezzo giro sull’asse centrale, accentuata dalla presenza di un piano orizzontale centrale. Ogni parte del vaso è del medesimo colore rosso del piano di fondo. Le suggestioni e i rimandi di quest’opera sono molteplici. Innanzitutto la scelta del colore e la suddivisione spaziale in comparti richiama la grande lezione della pittura romana, con le sue cromie e con la partizione architettonica dello spazio che proprio grazie a questi elementi caratteristici ha fornito i più interessanti esempi di ricerca prospettica antica riletta oggi e intesa come innovativa commistione tra spazio e tempo. La tridimensionalità dell’elemento vascolare e il suo inserimento nel piano della grata, nonché ancora la cromia, riportano al monumento funebre del maestro rinascimentale Verrocchio presente nel fiorentino San Lorenzo (santo omonimo dell’artista che potrebbe facilmente e semplicisticamente essere richiamato anche nell’uso delle grate e nella composizione del materiale su di esse tanto presente nei suoi lavori): tra una cappella e la sagrestia vecchia una vasta apertura è occlusa da una grata che taglia verticalmente in due il grande sarcofago in porfido rosso. Questi due richiami alla storia, non citazioni ma riflessi non palesemente espliciti, evidenziano comunque la volontà dell’artista di affrontare la problematica che rinvia all’opera come soglia: tra il reale e il virtuale, tra il fisico e il metafisico, tra il visibile e l’invisibile. Questo lavoro pare rivelare uno stretto legame con “Mare” realizzato nella greca Patras nel 1990 forse più di altri poiché qui più profondo e meno iconografico. Allora una grata sospesa orizzontalmente nello spazio era portatrice di elementi fluttuanti realizzati in creta poi concretizzatisi in lavori successivi in tracce di evidente corporeità. La rotazione in immota verticalità qui si accompagna con l’astrazione della forma dell’urna, del corpo come vaso, scomposto nella sua articolazione dinamica e spaziale. La geometria, la proporzionalità delle parti, i ribaltamenti e le rotazioni dei piani, la colorazione e il contemporaneo richiamo alla classicità e alla spiritualità aumentano la monumentalità di un’opera che diviene emblematica del pensiero dell’artista.

All’interno della produzione di Renzogallo trovano particolare collocazione alcune opere pittoriche di formato più ridotto nelle quali sono affrontate problematiche simili a quelle dei due lavori precedentemente esaminati, in preziose stratificazioni materiche che le avvicinano alle serie dei disegni di “Bersagli” di alcuni anni fa. Anche in esse i rapporti tra le parti riprendono proporzionalità classiche rivisitate alla luce dell’esperienza meditativa di sapore orientale e la spazialità è sottesa e risultante dal relazionarsi degli elementi posti nella composizione: frammenti di carta che ricordano l’apparente casualità della caduta dei ching, forme vascolari che contrappuntano gli spazi come elementi metafisici e sognanti, piccole circolarità che riportano l’attenzione verso una  sorta di omphalos prospettico e percettivo, grate accennate e dalla leggera consistenza evanescente ma che segnano il permanere di un substrato di vigilanza razionale e stratificazioni o grumi cromatici che indicano armonie sonore. Lo spazio che intercorre tra gli elementi di queste particolari figurazioni diviene esso stesso elemento significante al pari di ciò che esse sono e supportano iconicamente. La spazialità evanescente, ove la forma classica sembra abbandonarsi all’emozionalità dal sapore antico, si coniuga con la spazialità di altre opere, segnando la contemporanea presenza di differenti ‘temperature’ della produzione artistica dell´artista e la sua sempre forte e costante tensione intellettuale. Così avviene nella più recente serie di opere “Rosso“ nelle quali il tessuto di raso diviene proposta, geometrica ma fortemente espressiva, di una materia che diviene una pittura ricca di riverberi storici: dalle esperienze dei maestri del dopoguerra alle più lontane tonalità venete o spagnole.

Ancora una volta l’opera si presenta come dono e si offre alla riflessione dell’osservatore, invitato a relazionarsi con essa in una contemplazione non passiva, dimentico dei ritmi mondani, per scoprire silenti spazialità emozionali poste in durevole equilibrio tra razionalità e fisicità. Le opere pongono interrogazioni, non forniscono risposte e nel contempo affermano il loro essere presenti nel tempo e nello spazio, momentaneo incontro tra il pensiero, la materia e l’invisibile.